RÉSUMÉS
ABSTRACTS
(par ordre alphabétique
in alphabetical order)
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Jesús
ALTURO e Tània ALAIX,
Seminari de Paleografia, Codicologia i Diplomàtica, Universitat
Autònoma de Barcelona
Le prime
manifestazioni scritte in catalano: cause, origini, caratteristiche ed
espansione di un nuovo sistema grafico
Nel nostro intervento
intendiamo seguire le fasi della primitiva conquista della dimensione
scritta del catalano, allinizio in documenti di natura paralletteraria,
fino alla sua comparsa in testi letterari del xii secolo e, soprattutto,
del xiii secolo, quando avrà inizio la prima grande espressione
della letteratura catalana. È stato un lungo processo, del quale
vogliamo spiegare le cause e le caratteristiche, probabilmente non estranee
né diverse da quelle che stanno allorigine delle espressioni
scritte delle altre lingue volgari Allinizio si è trattato
di un processo involontario e spontaneo, ma, alla fine, con lincipiente
alfabetizzazione di una parte minima, anche se già influente, del
ceto laico della società, la scritturizzazione della nuova lingua
ha acquisito un carattere ormai completamente intenzionale e meditato.
E si è fatta strada con il medesimo ritmo con cui i testi in latino
hanno perso terreno, anche se dobbiamo riconoscere che la conoscenza e
luso del latino nelle classi socialmente preminenti della società,
in particolare quella ecclesiastica, avranno ancora lunga vita.
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Francisco
José ÁLVAREZ LÓPEZ
Universitat Autònoma de Barcelona
Bilingual
texts in late Anglo-Saxon Manuscripts: layout, script and use
In studies about the
evolution of script in England during the late tenth and eleventh century,
it is not uncommon to find references to manuscripts containing bilingual
texts. Among these, most commentators frequently cite monastic rules (namely,
the rules of St Benedict and Chrodegang) as well as a few glossaries and
Theodulfs Capitula. These texts provide a fascinating starting point
for the analysis of handwriting at a crucial point. This is because from
the middle of the tenth century, in the context of the so-called Benedictine
Reform, Caroline minuscule became the vehicle for writing Latin texts.
This established a new situation for Anglo-Saxon scribes, particularly
since the insular forms were maintained for the writing of the vernacular.
Bilingual texts thus offer relevant examples of scribes who were trained
to write in the two scripts and who were required to do so in close proximity
one with the other. The case of the shorter chapters in the RSB, for instance,
is particularly pertinent as one can see the scribes switching from Caroline
minuscule to Anglo-Saxon minuscule often within the same page.
A recent survey of
bilingual texts copied from the late 10th to the end of the 11th centuries
(still unpublished) located around fifty items. The list comprises a wide
range of texts, from monastic rules to short abjurations and brief inscriptions.
In all of them the same text is presented in Latin and Old English and
each language is copied using its applicable script. The picture that
this list reveals is consequently one of a much wider tradition of both
composition and transmission of bilingual texts during the last century
of Anglo-Saxon rule than has hitherto been recognised. The phenomenon
and its extent raise several questions: why was it deemed necessary to
circulate so many different kinds of text in a bilingual format? Is the
bilingual format more common for certain types of text? What types of
lay-out are used? Does this change according to text? Where do these manuscripts
originate? Are there centres with a particular interest in (re)producing
these items? What other texts were copied alongside them? And what language/script
are they in? How does this large body of texts inform our understanding
of the relationship between Caroline and Anglo-Saxon minuscule?
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Diego
BELMONTE FERNÁNDEZ
Universidad
de Sevilla
El surgimiento
de las escrituras en romance en la Edad Media sevillana: documentos del
arzobispo y del cabildo catedralicio
La Reconquista de
la ciudad de Sevilla se produjo a mitad del siglo XIII, en el año
1248. El rey Fernando III aseguró a su hijo, don Felipe, como primer
arzobispo, desde 1249 hasta 1258, pero con la colaboración de don
Remondo o Raimundo de Losaña, personaje clave en estos primeros
años, por aquellas fechas obispo de Segovia y Notario Mayor de
la Cancillería castellana. Don Remondo fue el auténtico
restaurador de la Iglesia cristiana en la ciudad, como arzobispo desde
1259 hasta su muerte en 1286. Fue él quien organizó la sede
y la dotó de una normativa, base jurídica sobre la que se
levantó la institución.
Es precisamente por
estas mismas fechas cuando el castellano empieza a ser utilizado en los
documentos que expide la Cancillería real. Es el mismo rey Fernando
III quien introduce esta novedad en la producción documental cancilleresca,
si bien se consolida definitivamente durante el gobierno de su hijo y
sucesor, Alfonso X. La cancillería del arzobispo y del cabildo
de la catedral de Sevilla no quedó al margen de este fenómeno.
La situación quedó favorecida por ser concretamente estos
reyes los que conquistaron y ordenaron la ciudad bajo el nuevo dominio
cristiano y por ser, de hecho, la Iglesia sevillana, y por extensión
su cancillería, una institución nacida ex novo, abierta
a la implantación de nuevas prácticas de escritura sin tradición
anterior.
En la presente comunicación
pretendemos hacer una reflexión general acerca de la introducción
de la lengua castellana en los documentos elaborados por las cancillerías
del arzobispo y del cabildo de la catedral de Sevilla durante la Edad
Media, así como de los diferentes oficiales que los conformaban,
prestando una muy especial atención a las repercusiones paleográficas
que el fenómeno pudo tener. Se han seleccionado para ello todos
los documentos localizados hasta la fecha de quien fuera el primer arzobispo
de la sede, don Remondo, así como algunos de los ejemplos más
significativos de las fechas inmediatamente posteriores a su gobierno.
Por medio de estos, pretendemos comprobar cómo el uso del idioma
romance en contraposición con el latín pudo, o no, influir
en la escrituración de los documentos que usó la Iglesia
de Sevilla para consolidarse en las nuevas tierras recién conquistadas:
¿Qué se escribía en latín y qué en
castellano? ¿Quién redactaba estos textos? ¿Qué
tipos gráficos se usaba en cada caso?...
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Maria
CARERI
Università
degli studi di Chieti-Pescara
La
forma del titulus. Dal latino alle lingue romanze.
Nella comunicazione
vorrei occuparmi della storia e della geografia di alcuni segni abbreviativi
usati nella scrittura delle lingue romanze in Inghilterra, Francia, Italia
tra il XII e il XIV secolo.
Come scriveva Armando Petrucci,
luso di scrivere abbreviato,
e i modi in cui esso si è realizzato, è un modus scribendi
che va studiato storicamente come fenomeno grafico culturale età
per età ed area per area, prima ancora che repertoriato indiscriminatamente
per (inconsistenti) ragioni pratiche di scioglimento e di comprensione(N.
Giovè Marchioli, Alle origini delle abbreviature latine,
Messina 1990, 9-12). Mentre per il francese esiste un lavoro importante
di G. Hasenohr (Langue française 119, 1998), per litaliano
ho trovato molto poco; segnalo solo un utile articolo di Teresa De Robertis
(Medioevo e Rinascimento 7, 1993) e uno studio di A. Bocchi (Scriptorium
LXI, 2007), che ha ispirato questa mia ricerca.
In particolare mi
soffermerò sulla forma del titulus. Come si trasformano questi
segni nei transfert di area e di età, cosa succede quando in Francia
ed in Italia si inizia a copiare in volgare: esiste una specificità
del sistema abbreviativo delle diverse lingue romanze rispetto al latino?
Per rispondere a queste
domande intendo partire da
1. la schedatura delle abbreviazioni presenti nei mss francesi copiati
in Inghilterra e in Francia (Cat. 12 e Album 13);
2. la schedatura delle abbreviazioni presenti nei mss schedati nei due
volumi di S. Bertelli (BNCF e Laurenziana) e nei volumi sugli autografi
italiani del 300;
3. la schedatura dei canzonieri provenzali copiati in Italia e di alcuni
mss franco-italiani (Chanson dAspremont, Histoire Ancienne, Trésor);
4. il confronto dei dati raccolti con le tavole dei mss datati.
Da una prima verifica
risulta che le varianti formali del titulus assumono funzioni diverse
nel tempo e nello spazio latino e romanzo tra il XII e il XIV secolo e
che questo causa confusione ed errori nella trascrizione. In particolare
lo stesso segno (a forma di ricciolo) utilizzato per la nasale
nel XII secolo sarà usato a partire dal XIII secolo in Italia per
abbreviare le vibranti (specialmente in posizione preconsonantica).
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Teresa
DE ROBERTIS
Università degli studi di Firenze
Il libro
di poesia tra norma e innovazione
È senza dubbio
nel campo della poesia che si misura la maggiore distanza tra la tradizione
latina e quella volgare: nuovi generi metrici e nuovi aggregati testuali
hanno richiesto quanto meno ripensamenti e adattamenti dei modelli tradizionali,
più spesso là dove i modelli non esistevano - nuove
strategie di impaginazione e grafiche con ricadute sulla progettazione
complessiva del libro: strategie talvolta di breve successo, talvolta
destinate a una lunga fortuna. Da dove viene, per esempio, la scelta che
contraddistingue la fase più antica di trasmissione della lirica
italiana di trascrivere i versi al modo della prosa, scelta che non ha
precedenti latini o tanto lontani da non poter essere considerati tali?
Ciò che si propone è un quadro dei vari modi in cui fu scritta
la poesia volgare in Italia fra i ss. XIII e XIV e delle ragioni che si
possono riconoscere dietro le scelte dei copisti, con unattenzione
particolare a quella che è, per così dire, una particolare
virtù codicologica della poesia, il suo essere misurabile e dunque
funzionare (almeno in certi casi) come unità di progettazione della
pagina e, più in generale, del libro.
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Giovanna
FROSINI
Accademia della Crusca, Firenze
Dalle
carte e dalle pietre: riflessioni e considerazioni per la storia della
lingua italiana
Ritrovamenti, nuove
acquisizioni, rivalutazioni di elementi in tutto o in parte già
noti, nuove frontiere metodologiche: negli ultimi anni molte novità
hanno riguardato l'approdo del volgare alla forma scritta, e il costituirsi
di una sua forma letteraria, in specie poetica.
Il contributo che si propone intende riflettere, attraverso alcuni casi
esemplari, su ciò che di significativo risulta per il tracciato
storico della lingua italiana, nella distinzione delle epoche e delle
tipologie testuali.o.
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Elvira
GLASER
Universität
Zürich
Kürzungen
im Althochdeutschen
In den althochdeutschen
Quellen stösst man immer wieder auf unvollständig geschriebene
Wörter, wobei unter-schiedliche Verfahren zu beobachten sind. Von
solchen Phänomenen hauptsächlich betroffen sind volkssprachige
Erklärungen zu einem lateinischen Text, die Glossen und Interlinearversionen,
während in den althochdeutschen Texten gekürzte Wörter
eher selten sind. So ist beispielsweise bei einem lateinischen Textwort
loquendi der Glosseneintrag sa anzutreffen, mit welchem das althochdeutsche
Übersetzungswort sagen sagen wie-dergegeben wird.
Oder es wird ein lateinisches Textwort sanguine mit te glossiert,
worin eine althochdeutsche Flexionsendung, die Endung des Dativs Singular
(vgl. die Vollform bluote) zu erkennen ist. Daneben treten weitere
Typen von Kürzungen auf, bei denen zusätzliche Zeichen verwendet
werden, Abbreviaturzeichen, oder auch diakritisch positionierte Einzelbuchstaben,
so dass wir entgegen der traditionellen Terminologie primär zwischen
unbezeichneten und bezeichneten Kürzungen unterscheiden. Da das althochdeutsche
Schriftwesen im 8. Jahr-hundert tief in die lateinische Schriftlichkeit
eingebettet ist, lässt sich ein grosser Teil der althochdeutschen
Kurzschreibungen aus den konventionalisierten Kürzungsverfahren der
damaligen Lateinschrift herleiten. Es ist daher zu prüfen, inwieweit
die für das Lateinische erarbeitete paläographische Terminologie
auf die Analyse der Kürzungen in der Volkssprache anwendbar ist.
Für den Bereich der Glossen, in dem die meisten Kürzungen vorkommen,
wird eine neue Klassifikation nach Form und Funktion der Kürzungen
vorgestellt.
Obwohl die Kürzungen
im Althochdeutschen schon zu Beginn der Althochdeutschforschung als eigentümliches
Phänomen erkannt und beschrieben wurden, sind sie bis heute zu grössten
Teilen unerforscht geblieben (vgl. den kurzen Überblick in Schneider
1999 zur nachalthochdeutschen Kürzungspraxis). In meinem Beitrag
sollen die Ergebnisse eines Projekts zu Form und Funktion der Kürzungsschreibungen
im Althochdeutschen vorgestellt werden, das auf einer umfassenden Materialerhebung
basiert. Darüber hinaus soll auch die Forschung zu den Verhältnissen
in den benachbarten Volkssprachen (Germanisch, Keltisch) berücksichtigt
werden. Für das Althochdeutsche soll ein Überblick über
die zeitliche und räumliche Verwendung sowohl der bezeichneten als
auch der unbezeichneten Kürzungen gegeben werden. Die vorgenommene
Klassifikation wird anhand einiger Beispiele aus den untersuchten Handschriften
illustriert. Dabei sollen im Vergleich auch die Verhältnisse in den
jeweili-gen lateinischen Ausgangstexten behandelt werden.
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Marcella
LACANALE
Università
di Chieti-Pescara
Gli
accenti nei manoscritti romanzi del XII secolo
Tra i fattori che
concorrono alla complessa operazione della messa per iscritto di lingue
nuove, l'uso dei segni paragrafematici ha un ruolo importante;
la mia comunicazione intende concentrarsi sullutilizzo degli accenti
o apici a cui i copisti ricorrevano con obiettivi divergenti e diverse
modalità.
Gli studi sporadici
sull'argomento pubblicati tra 800 e 900 (K. Lincke, Die
Accente im Oxforder und Cambridger Psalter sowie in andere Altfranzösischen
Handschriften. Eine paläographisch-philologische Untersuchung,
Erlangen 1886; P. Meyer, Romania XII (1883), 146-152 e 192-203;
P. Rajna Romania LXXXXIV (1973), 1-86 ecc.) si concentrano maggiormente
sull'uso degli accenti in un codice specifico, senza tentare una sistematizzazione
delle abitudini registrate. D'altronde gli studi con orientamento più
generale e organico (H. Varnhagen, Zeitschrift für Romanische
Philologie 3 (1879), 161-167; C. Brunel, Bibliothèque de
lEcole des Chartes LXXXVII (1926), 347-358; R. Marichal, Annuaire
1969-1970, Paris 1970, 363-387; P. Bourgain, Du copiste au collectionneur.
Mélanges dhistoire des textes et des bibliothèques
en lhonneur dAndré Vernet, Bruxelles 1998, 249-265.)
hanno messo in luce la notevole varietà di funzioni che gli accenti
rivestono nei codici, da quella tonica a quella metrica, dalla paleografica
fino alla funzione fonetica.
Partendo dall'analisi
di alcuni codici, si proverà a dare un panorama che descriva gli
utilizzi più consueti degli accenti da parte dei copisti e ci si
interrogherà su una possibile classificazione degli usi su base
geolinguistica.
L'interpretazione
delle funzioni (diverse, non sistematiche, eterogenee) va affrontata caso
per caso, tenendo conto della sovrapposizione delle funzioni in un unico
segno, ma analizzando, dal punto di vista del copista, quale fosse l'esigenza
a cui l'accento su un certo grafema stesse rispondendo. Partendo dunque
da questa prospettiva si metteranno in luce le conseguenze più
interessanti che una corretta interpretazione degli accenti può
avere sul lavoro di edizione e interpretazione dei testi, ad es. dal punto
di vista linguistico e metrico
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Viola
MARIOTTI
Université
de Lille
Florence CERESATO
Dominique STUTZMANN
CNRS-IRHT,
Paris
Les abréviations
dans les manuscrits français du XIIIe siècle : analyses
statistiques
Si depuis trente ans
les abréviations vernaculaires ont fait lobjet détudes
détaillées, le domaine français reste parmi les moins
bien explorés. Malgré quelques recherches pionnières,
plusieurs questions demeurent ouvertes : identification et fréquence
relative des abréviations ; caractère conservateur ou innovant
de celles-ci par rapport au système abréviatif latin et
relations entre abréviations françaises « continentales
» et « anglo-normandes » (premier parler gallo-roman
à passer à lécrit). Plus généralement,
lévolution du système abréviatif dans le temps
et lespace du XIIIe siècle. En outre, bien que l'hypothèse
contraire ait été avancée, il faut étudier
si et comment les abréviations sadaptent au genre textuel
et au public de louvrage copié.
Lambition de
cette communication est de répondre à ces questions à
partir du corpus constitué dans le cadre du projet ECMEN Ecriture
médiévale et outils numériques (IRHT, 2015-2019).
Celui-ci vise à constituer progressivement le catalogue des manuscrits
datés du fonds français de la Bibliothèque nationale
de France et dun corpus complémentaire en lenrichissant
déditions partielles en XML-TEI (transcriptions indiquant
les abréviations et leur résolution), en commençant
par les cotes « fr. 1 » à « fr. 1000 ».
Le corpus se compose à lheure actuelle de 377 notices et
76 transcriptions couvrant un ou plusieurs feuillets, pour des textes
presque tous inédits, en langue doïl et doc, allant
du XIIIe au XVIe siècle. Le XIIIe s. étant faiblement représenté,
des manuscrits au-delà de la cote « 1000 » ont été
sélectionnées. Pour linstant 34 manuscrits datés
et datables du XIIIe siècle ont été transcrits ;
ce corpus sera plus que doublé en 2019.
Lédition
électronique permet dinterroger en corrélation les
manuscrits du corpus français et de corpus latins équivalents.
Outre le nombre dabréviations, on peut aussi mesurer lemploi
des différents types dabréviations (tilde de nasale,
lettre suscrite, signe conventionnel, contraction), le nombre de caractères
escamotés, leur emplacement dans le mot ou sur la ligne (début,
milieu, fin) et dans le texte (en particulier, noms de personnes et de
lieux). Des observations préliminaires montrent des phénomènes
paradoxaux (plus grand nombre dabréviations en fin de ligne,
mais sans augmentation du nombre moyen de lettres escamotées).
Cest avec des observations plus précises de cette nature
que nous testerons les différents facteurs susceptibles davoir
influencé les écritures françaises : chronologie,
géographie, contexte de production, matérialité et
codicologie, typologie textuelle (et public supposé), influence
du modèle abréviatif latin.
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Nicoletta
GIOVÈ MARCHIOLI,
Università degli studi di Padova
Carlo
TEDESCHI
Università degli studi di Chieti-Pescara
Le
scritture esposte in volgare: dalle tracce alla diffusione. Note paleografiche
«Lintero
complesso delle iscrizioni dipinte del ciclo di Beno, per quanto ne è
rimasto, andrebbe ancora studiato più attentamente di quanto non
si sia fatto finora, dal punto di vista paleografico» (A. Petrucci,
Il volgare esposto, contributo pubblicato negli atti del convegno
Visibile parlare svoltosi a Cassino nel 1992 e dedicato proprio
allo studio delle testimonianze epigrafiche in, o forse meglio del, volgare).
A distanza di oltre ventanni dalluscita di quel volume, le
considerazioni di Armando Petrucci su uno dei più antichi e più
celebri testi del volgare italiano esposto sarebbero ancora valide, così
come sarebbe soprattutto valida la sua sollecitazione circa lopportunità
di un confronto tra gli «esempi nostrani e quelli di altre aree
linguistiche».
Effettivamente, dal
1997 anno di edizione del volume citato ad oggi sullemersione
del volgare scritto in ambito epigrafico pressoché nulla è
stato aggiunto dal punto di vista paleografico. Manca soprattutto ancora,
di fatto, un corpus dellepigrafia medievale italiana, nonostante
oramai da tempo si sia avviata la collana delle IMAI Inscriptiones
Medii Aevi Italiae, promossa dalla Fondazione Centro Italiano di Studi
sullAlto Medioevo di Spoleto, che raccoglie le testimonianze epigrafiche
italiane datate o databili sino alla metà del XII secolo. Collana
allinterno della quale finora sono stati pubblicati soltanto quattro
volumi, che ci consegnano peraltro una sola testimonianza in volgare,
precisamente nel I volume, relativa a Civita Castellana. Per fortuna nuove,
sebbene singole, pubblicazioni - a cominciare da quella di Livio Petrucci,
Alle origini dellepigrafia volgare, del 2010, con le sue
utilissime illustrazioni - facilitano senzaltro il compito di chi
voglia tentare una sintesi critica di questo specifico fenomeno grafico
nel suo complesso.
Nella relazione che
intendiamo proporre vorremmo prendere in considerazione appunto i documenti
epigrafici in volgare e in semivolgare con una particolare
attenzione a quelli dellarea italiana, ma senza trascurare, per
quanto possibile, e come termini di paragone, altri versanti romanzi,
dal francese al provenzale, alliberico a partire dalle testimonianze
antiquiores del IX secolo fino ai primi decenni del XIV, quando la presenza
del volgare nella comunicazione epigrafica si fa più consistente
e sempre meno sorprendente, nel tentativo di comprendere analogie e differenze
rispetto alla prassi scrittoria dellepigrafia in latino, seguendo
una serie di prospettive diverse, ovvero dal punto di vista delle scelte
materiali (che riguardano dunque i supporti e la mise en page) e soprattutto
formali (contemplando in particolare le tipologie grafiche adottate, il
sistema abbreviativo usato e i diversi segni di interpunzione e punteggiatura),
senza dimenticare gli specifici contesti di uso.
Il nostro discorso
sarà, ovviamente, basato sullanalisi delle manifestazioni
grafiche proprie di epigrafi già note, ma è nostra intenzione
portare allattenzione anche nuove testimonianze, del tutto inedite
o conosciute soltanto in pubblicazioni locali e dunque non ancora pienamente
entrate nel dibattito sul fenomeno dellapparizione del volgare scritto
allinterno delle fonti epigrafiche.
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María
Encarnación MARTÍN LÓPEZ;
Universidad de León
La emergencia
de los escritos en lengua vulgar. Factores y actores en las inscripciones
hispanas (ss. XI-XIII)
La aparición
de lenguas vulgares en libros y documentos, por iniciativa de escritores
o del público en general, ha sido ampliamente estudiada por historiadores
y filólogos. Sin embargo, las inscripciones latinas medievales
no recibieron la misma atención. Los textos epigráficos
contienen desde tiempos antiguos contaminaciones e influencias de la lengua
vulgar. Ciertamente hay estudios sobre los vulgarismos encontrados en
las inscripciones, pero no especifican nada en la paleografía,
nada en los actores que intervienen en el proceso escrito. Proponemos
un análisis de la epigrafía y la relación entre el
surgimiento de las lenguas vernáculas y la ejecución de
inscripciones en escritura vulgar, es decir, realizadas en los talleres
artesanales, rurales y ocasionales. Hay una necesidad constante de comunicar
hechos, de perpetuar los nombres de las clases más bajas. Estos
no tienen los medios de los centros monásticos.
Para enfocar el estudio,
no interesan las inscripciones de los circuitos culturales, relacionadas
con el alto clero, ejecutadas en obras artísticas costosas y minuciosas
para que el control de los textos, la epigrafía y el uso del latín
se esfuercen por dar un mayor Solemnidad al conjunto. Las inscripciones
rurales proporcionan la mayor articulación e influencia de la lengua
hablada, así como un repertorio paleográfico más
amplio que se aleja de los cánones establecidos. En las zonas rurales,
la epigrafía muestra una mayor libertad de expresión verbal
con contaminaciones del lenguaje hablado y soluciones gráficas
en forma de letras derivadas de la falta de habilidad, pero también
la misma libertad que proporciona el lapicida. Ausencia de control social
durante la ejecución del signo. Es una práctica común
utilizar asimilaciones, reducciones, explicaciones u otros fenómenos
lingüísticos que no se deben a contaminación o fenómenos
fonéticos, sino a errores en el uso de drogas. Estos casos descubiertos
en Zamora, Valladolid, Guadalajara, Burgos constituyen otro aspecto a
estudiar para conocer el funcionamiento de las computadoras y los pesticidas.
Es posible que el lapicida no hiciera estudios gramaticales y que solo
fuera un hábil artesano. Es común que los errores que aparecen
en las inscripciones se le atribuyan, como en el caso de gráficos
invertidos o interpretaciones incorrectas de los minutos. Los puntos a
estudiar son: 1. Talleres artesanales y casuales, sus epígrafes
y sus condiciones de trabajo. 2. ¿Quiénes son los actores
y los autores? 3. Analizar las peculiaridades gráficas y lingüísticas.
El estudio se basará en las entradas publicadas en el Corpus Inscriptionum
Hispaniae Mediaevalium (Burgos, Salamanca, Valladolid, Cantabria, La Rioja,
Guadalajara), así como las publicadas en otras publicaciones de
Asturias, Cataluña y Galicia.
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Maria
do Rosário MORUJÃO
Université
de Coimbra
La langue
portugaise dans la chancellerie royale portugaise au XIIIe siècle
Les débuts
de lutilisation du portugais écrit ont déjà
été lobjet de plusieurs études menées
par des linguistes aussi bien que par des historiens, qui permettent de
savoir que dans le dernier quart du XIIe siècle la langue vernaculaire
était déjà écrite, bien que le latin ait continué
à dominer pendant un siècle encore, jusquau règne
de Denis (1279-1325), qui ordonna lutilisation du portugais dans
les documents concernant ladministration du royaume.
La langue vernaculaire
médiévale est aussi de plus en plus étudiée
du point de vue linguistique, ce qui rend plus précise notre connaissance
sur lévolution du latin vers cette nouvelle langue vulgaire.
Par contre, les caractéristiques paléographiques du passage
du latin au portugais écrit constituent encore un terrain presque
entièrement à défricher, et que je me propose de
commencer à aborder.
Je me propose donc
détudier comment, petit à petit, le portugais a envahi
la chancellerie royale portugaise tout au long du XIIIe siècle,
cest-à-dire, depuis la première utilisation connue
de la langue vernaculaire dans une charte royale (le testament du roi
Alphonse II de 1214) jusquà la moitié du règne
de Denis. Cette étude tiendra en compte plusieurs aspects, à
savoir :
lévolution
du nombre de chartes en portugais tout au long du siècle ;
les destinataires de ces chartes (étaient-elles adressées
surtout à une catégorie de destinataires, notamment aux
laïcs ?) ;
lidentification des scribes et rédacteurs de chartes
qui écrivaient dans cette langue (étaient-ils aussi chargés
de lélaboration des chartes en latin ?)
et surtout, ladaptation à la nouvelle langue du système
abréviatif, y compris les notes tironiennes, et des signes diacritiques
latins.
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Andreas
NIEVERGELT
Universität Zürich
Diakritika
in der Schriftgeschichte der altgermanischen Sprachen
In der Schriftgeschichte
der germanischen Volkssprachen spielt die lateinische Schrift eine zentrale
Rolle. Während für die Aufzeichnung der gotischen Sprache noch
eine eigene Schrift entwickelt wurde, erfolgte die Verschriftung der nord-
und westgermanischen Volkssprachen nach runischen Anfängen
innerhalb eines engen funktionalen Rahmens in lateinischer Schrift.
Das lateinische Schriftsystem eignete sich allerdings nur bedingt zur
Wiedergabe der germanischen Laute und musste entsprechend angepasst werden.
Dazu wurden eigens gebildete Digraphien benutzt, aus anderen Systemen
Zeichen wie Runen und tachygraphische Noten bezogen oder aber den lateinischen
Buchstaben diakritische Zeichen hinzugefügt.
Die diakritischen
Zeichen spielen in diesen Vorgängen auf den ersten Blick eine bescheidene
Rolle mit wenig Nachwirkung. Bei näherer Betrachtung zeigen sich
in ihnen jedoch eigenständige formale und funktionale Entwicklungen,
die sich zudem von Sprache zu Sprache unterscheiden. In der Forschung
werden sie gemeinhin mit Akzentzeichen gleichgesetzt. Sie bilden jedoch
Systeme aus, in denen den Zeichen auch gleichzeitig mehrere
Funktionen zufallen. Besonders vielfältig verwendet erscheinen sogenannte
Akzentzeichen im Bereich der altenglischen Schriftlichkeit. Eine besondere
Situation wird auch in den althochdeutschen Quellen sichtbar, wo einerseits
bei einer Vielzahl sporadischer Glossenbelege die funktionalen Zusammenhänge
verdunkelt sind, andererseits mit Notker dem Deutschen eine Systematik
der Akzentsetzung formuliert wird. Im Althochdeutschen spielen sich zudem
ganz eigentümliche Episoden diakritischer Schreibpraxis ab. Diakritika
tauchen hier auch in monoalphabetischen Geheimschriften auf und begleiten
die Integration der angelsächsischen w-Rune in das lateinische Zeicheninventar.
Die Diakritika bilden
für etliche der altgermanischen Einzelsprachen ein wenig erforschtes
Gebiet. An ihnen lässt sich jedoch beispielhaft zeigen, wie eine
Übernahme bestehender Schriftzeichen und deren Erweiterung um Zusatzzeichen
zusammenhängen. Der Beitrag untersucht den schriftsystematischen
Charakter der Diakritika bei der Herausbildung einer volkssprachigen Schriftverwendung
am Beispiel der westgermanischen Verhältnisse, insbesondere im Bereich
des Altenglischen, Altsächsischen und Althochdeutschen und streift
kurz auch die altnordische Situation.
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Åslaug
OMMUNDSEN
University of Bergen
Bilingual
scribes in the far North: early evidence from Trondheim, Norway
This paper will look
at the bilingual scribes of Norway, to seek to discover what additional
information can be retrieved about a scribe or scribal community when
the surviving evidence includes vernacular specimens of writing as well
as Latin. A scribe working in Trondheim, Norway, ca. 1200 will be used
as the main example.
When the first scriptoria
were established in Norway in the eleventh century, their first products
were missals and other liturgical books in Latin, resources in high demand
at the time, needed by the fast growing Church. At what date the first
texts in the Old Norwegian vernacular appeared is uncertain. However,
from the very beginning important teachers and models of script came from
England, a country with a strong tradition of vernacular writing. Due
to the poor survival of Norwegian material, the earliest surviving remains
of manuscripts written in the Old Norwegian vernacular are datable to
the last decades of the twelfth century. Four early specimens of Norwegian
writing have been localized to the town of Trondheim, the see of the medieval
archdiocese of Nidaros, and all dated to just before or after 1200. (Another
four examples of the same date, including the oldest surviving book in
Old Norwegian, have Bergen as their place of origin.)
The earliest vernacular
material in Norway shows that learned culture was, to a large extent,
a bilingual one: the hands of several of the thirteenth-century scribes
writing in the vernacular have also been identified in the Latin fragment
material. Although the known scribes are relatively few and the manuscript
material is fragmentary and poorly preserved, the examples we have are
important evidence of the dynamics of vernacular and Latin writing, showing
how scribes would respond to the two languages.
One of the earliest
examples from Trondheim is a scribe writing about 1200 in both Latin and
Old Norwegian. He has been named the Benedict scribe (coined
by Michael Gullick) after his copy of an Old Norwegian translation of
the Rule of Benedict (Oslo, NRA, Nor. fragm. 81a,1-5). This scribe has
also been identified in six liturgical books in Latin (which in the Norwegian
fragment material is an exceptionally high number), five of them in Norway
and one discovered among the Icelandic fragment material in Denmark.
In this paper, I will
primarily investigate what information the vernacular fragments may provide
that we would not get from Latin fragments alone, using the Benedict scribe
as an example. What can we learn about a scribe from his language and
dialect? How different is the aspect or formality of a scribes hand
when writing in the vernacular? What sort of institution might he have
worked at, and what kind of role might he have played there? The paper
will also identify the earliest texts to survive in the vernacular from
Norway, and examine how the copies of these texts and their palaeographical
features relate to the Latin material from the same time.
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Martina
PANTAROTTO
Università telematica eCampus
La
scrittura a mosaico: inserti in volgare nei testi della predicazione.
Aspetti grafici e perigrafici a confronto
La ricerca mira ad
indagare lemersione del volgare italiano (settentrionale, umbro,
meridionale) allinterno delle trascrizioni dei sermoni latini nei
secc. XIII-XV, dal punto di vista del tessuto grafico e perigrafico. Il
caso dei sermoni in latino mescidato o con ibridazioni linguistiche è
un fenomeno linguistico e letterario ampiamente indagato , in diversi
contesti nazionali . Ma il presente lavoro si concentra sullaspetto
propriamente paleografico, indagato nei testimoni unici e nel confronto
tra più testimoni dello stesso testo, osservando le reazioni del
tratto grafico (e degli elementi perigrafici) nel passare alla scrittura
di una lingua diversa entro lo stesso testo e talvolta entro la medesima
frase, come riflesso di una realtà di bilinguismo ormai consolidato
ed anche, almeno in parte, di tradizioni grafiche specializzatesi nei
diversi ambiti linguistici.
Si tratta di un ambito ben circoscritto, delimitato da un lato dalla tradizione
della predicazione redatta interamente in volgare, dallaltro dai
sermonari interamente in latino. Nel fenomeno dellibridismo linguistico
della predicazione si intersecano aspetti letterari, linguistici, sociologici,
antropologici e culturali, ma laspetto paleografico risulta oggi
piuttosto trascurato, a fronte di una tradizione manoscritta non imponente,
per quanto in continuo aggiornamento. Lobiettivo è individuare
modelli ed interferenze nella scrittura volgare in questi
contesti di inserzione irruzione e verificare come il prepotente
emergere di una predicazione moderna, collettiva ed emotiva
si rifletta sugli usi grafici, distinguendo tra contesti di reportationes
immediate, riscritture private e trascrizioni successive.
Il contributo illustra
gli esiti di unanalisi condotta in unottica sincronica contrastiva
(trattamento del latino vs il volgare) e diacronica, seguendo lo sviluppo
del fenomeno nellarco di tre secoli, fino allo scadere del Medioevo.
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Hana
PÁTKOVÁ
Charles University, Prague
Czech
language and Latin alphabet in the late Middle Ages
The oldest Czech texts
written in the Latin alphabet survive in manuscripts from the twelfth
century. Their number gradually rose, and their scribes faced the challenge
of how to record the specific Czech speech sounds in the Latin alphabet.
The most significant breakthrough is usually regarded as being the composition
of the tractate De orthographia Bohemica at the beginning of the
15th century. This treatise, ascribed hypothetically to the Czech church
reformer Jan Hus, introduced the diacritic orthography into Czech orthography,
which would continue to be used up to the present time. It is probably
the first system of diacritic orthography to have been devised for a Slavic
language in the Latin script. However, palaeographical analysis of Czech
texts from the late Middle Ages demonstrates that the development was
not so straightforward. The new orthography was applied gradually and
only in certain types of texts. For a long time, the orthography of documents
was different from literary texts. The form of diacritics also developed
slowly. Taken as a whole, the actual written record of the Czech language
in the late Middle Ages remained rather heterogeneous.
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Fílipa
ROLDÃO
Universidade de
Lisboa
Joana SERAFIM
Universidade europeia
/ Centro de linguística da Universidade de Lisboa
Les chartes
de franchises au milieu de lémergence du portugais : aspects
graphiques et matériels
Dans le contexte de
la Reconquête chrétienne dans la Péninsule ibérique
et du peuplement des territoires occupés, les souverains portugais
aussi bien que quelques seigneurs laïques et ecclésiastiques
ont octroyé aux communautés des chartes de franchise, surtout
pendant les XIIe et XIIIe siècles. Toujours écrites en langue
latine, ces chartes établissaient le cadre légal des relations
politiques, économiques et fiscales entre les seigneurs et les
habitants des villes, et aussi entre ces derniers. Au cours de lémergence
de la langue vernaculaire dans la chancellerie royale, ces documents ont
commencé à être écrits en portugais ; en outre,
certaines villes ont décidé de traduire leurs chartes en
langue vernaculaire pour mieux les comprendre. Le but de cette communication
est donc d'analyser dans quelle mesure l'introduction de la langue portugaise
dans documents aussi solennels apporte une sorte d'innovation dans la
mise en page du contenu juridique et de son système graphique ou
si, au contraire, elle conserve les mêmes aspects matériels
et graphiques suivis lors de l'utilisation de la langue latine. La mise
en page du texte, les signes de validation, ainsi que le volume et le
type dabréviations seront parmi les paramètres abordés.
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Martin
SCHUBERT
University of
Duisburg-Essen
Hildebrand,
Otfrid, and Notker. German language on its way into literacy
The first written
testimonies of German language, from the eighth century on, necessarily
contain elements of improvisation when adapting a form of writing that
was originally developed for Latin. Throughout the Early Middle Ages,
scribes wrestled with consonants that do not exist in Latin, with different
qualities and quantities of vowels, with syntactic and literary structures
hitherto unrecorded in writing. Several of the early written records belong
to an ad hoc type of notation that seem to show separate steps in the
invention of written Germane. g. the Hildebrandslied or the
Paris conversations (both ninth-cent.), or the early Medieval interlinear
glosses. It is still possible, in these shorter forms, to trace in the
material form the difficulties that the scribes experienced.
On the other hand,
there are highly professional authors and scribes who engaged in the process
of writing down longer vernacular texts. Otfrid of Weißenburg with
his rhymed German Life of Christ (later ninth-cent.) presents,
in addition to his literary achievement, manuscripts of the highest quality.
He himself commented on the difficulties of transcribing German, but in
the codices written under his supervision, all these problems seem to
be solved. Otfrid drew on the very best that the Latin tradition could
provide: in his manuscripts, he employed a kind of orthographic system,
indicated structural divisions using visual devices including illumination,
and included other elements from the Latin book tradition including an
acrostic. The St. Gall teacher, Notker III (early eleventh-cent.) developed
a system to distinguish vowel quantities and devoiced consonants; his
translations from the bible and from classical antiquity are also examples
of a high level of book production.
In this talk, I want to demonstrate that the development of the handwriting
for written German depended on improvised forms on the one hand, but also
on highly elaborate graphic and other conventions derived from the Latin
tradition on the other. This will be analyzed e. g. in relation to the
practice evolving as to signs for special German sounds like
w, ch, ü, ö, or long and short vowels, and with reference to
the level of formality of the book script and the arrangement on the page.
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Marc
SMITH
École nationale des chartes, Paris
Lémergence
décritures nationales à la Renaissance
La distribution des
écritures en Europe a été reconfigurée à
partir du XVe siècle, dans le contexte de lémergence
des États-nations. Dune part, la tradition des écritures
documentaires, après une phase dhomogénéisation
autour des modèles de chancellerie au XIVe siècle, sest
à nouveau diversifiée selon une nouvelle articulation territoriale,
soumise à des facteurs institutionnels, politiques et linguistiques.
Dautre part la naissance et la diffusion de lécriture
humanistique puis de la cancelleresca italica a offert un modèle
alternatif, bientôt devenu international. Tandis que la diversité
des écritures livresques médiévales se fondait dans
une relative unité typographique, partagée entre gothique
et romain, les écritures documentaires ont été le
lieu de nouvelles expérimentations, dessinant le paysage graphique
de lEurope en fonction de léchelle de circulation des
écrits, entre une koïnè italianisante et des écritures
fortement différenciées, à peu près exclues
de tout usage, voire illisibles, hors de leur territoire institutionnel,
politique et linguistique dorigine. Autour de ces modèles
très divers, dont il importe de retracer la formation, la propagation
et linteraction, sest formé le paysage graphique paradoxal
de lépoque moderne, qui na pas retrouvé lunité
avant le milieu du xxe siècle.
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Jürgen
WOLF
Universität
Marburg
Form
- Funktion Schrift. Buch- und Schriftproduktion in der Lübischen
Kanzlei von 1230-1330
Im Zentrum steht die
Schrift- und Buchproduktion der Lübischen Kanzlei, die ab den 1230/40er
Jahren zunächst bis zur 'Wirtschaftskrise' um 1315 und danach noch
einmal bis zur Pest große Serien lateinischer und ab den 1270er
Jahren vorzugsweise deutscher Rechtshandschriften für den eigenen
Gebrauch, aber mehr noch für den Export in den gesamten Ostseeraum
herstellt. Diese Bücher zeigen spezifische Merkmale, die bald Normdimensionen
(im Sinn von: "Das ist ein Buch aus der Lübischen Kanzlei")
annehmen. So reicht das Niveau der kantig-wuchtig wirkende Schrift oft
bis hin zur im volkssprachigen Bereich sonst völlig unüblichen
Textura (nach Schneider-Terminologie).
Seit den 1250er Jahren
sind in der Lübischen Kanzlei erste Anfänge einer seriellen
Produktion von Rechtsbüchern nachweisbar. Anfangs scheint man mit
unterschiedlichen Schrift- und Einrichtungsmustern zu experimentieren.
Zeigen sich in den ältesten Büchern dieser Serie noch Unsicherheiten
bei Schrift und Einrichtung, wirken die Bücher spätestens seit
den 1280er Jahren hochgradig normiert: Für höchste Ansprüche
kommt eine kantige Textura zum Einsatz; zudem wird für Initialen
und Miniaturen insb. der auf Außenwirkung (das schouwen)
angelegten Exemplare reichlich Edelmetall, für alle anderen
zumindest modernes Fleuronnée verwendet. Letztlich kristallisiert
sich für alle ab ca. 1280 bis weit ins 14. Jahrhundert in der Kanzlei
produzierten Handschriften ein verbindlich vorgegebenes Schrift- und Ausstattungsschema
heraus heute würde man von corporate identity sprechen, wobei
man sich in der Lübischen Kanzlei bemüht, die Buchstabenformen
aus der Zeit um 1280/1300 auch Jahrzehnte später noch 'fortzuschreiben',
und mehr noch, sogar das gesamte Erscheinungsbild des Buchs im Sinn einer
Schrift-/Buchnorm beizubehalten.
Diese oft mehr als
ein halbes Jahrhundert fortgeschriebenen Bücher erweisen sich als
'lebende' Objekte. Sie werden in Lübeck, aber auch in vielen Orten
lübischen Rechts entlang der Ostseeküste über Jahrzehnte
intensiv genutzt, ergänzt, überarbeitet, kopiert, in neue Zusammenhänge
integriert was bedeutet, dass wir längst in alphabetisierten
Stadtgesellschaften angekommen sind, in denen Schriftlichkeit ebenso
allgegenwärtig ist wie Schriftlichkeit professionell betrieben/produziert
wird (in Lübeck übrigens meist von 'angestellten' Schreibern
der Kanzlei; erst in den 1340er Jahren werden Schreibaufträge an
Geistliche outgesourct). Dass dabei die Grenzen zwischen Latein und Volkssprache
verschwimmen, erscheint kaum überraschend, zumal das städtische
Milieu per se bilingual ist.
Hintergrund: Im Rahmen
eines internationalen Forschungsprojekts werden unter meiner Beteiligung
aktuell alle Lübischen Rechtshandschriften der skizzierten Epoche
erforscht und das bedeutendste dieser Bücher, der bis vor kurzem
verschollene Bardewiksche Kodex (heute in Russland = Jurjewetz,
Museum, ???-2010; olim: Lübeck, Stadtarchiv, Hs. 734) auch ediert,
digitalisiert und faksimiliert. Im Kontext des Forschungsprojekts konnten
mittlerweile viele Schreiberhände identifiziert werden. Zum Teil
sind die Schreiber sogar samt ihrer Lebensumstände bekannt.
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Patrik
ÅSTRÖM
Royal Library, Stockholm
The relationship
between Latin script and runes in Germanic languages from earliest times
to the 12th century
Runes were invented
so far as we know in the first centuries A.D. The general
view nowadays would seem to be that they have their roots in Latin script.
Runes were spread all over northern Europe within the German-language
area for a long time, and were used primarily for inscriptions. A small
number of runes were adopted in texts written in Latin script as a complement
for phonemes in the Germanic languages with no equivalent in Latin, e.
g. þ (thorn) and ƿ (wynn) in Anglo-Saxon script.
Some runes, on the other hand, were used as logograms or abbreviations,
among others ᛗ(older futhark, i.e. runic alphabet) or ᛉ
(younger futhark) for man. Runes are found in a number
of famous manuscripts, for instance in the German Hildebrandslied, the
Anglo-Saxon Beowulf and in the Swedish Older Västgötalagen.
There are also interesting examples, from both Britain and Sweden, for
instance, of inscriptions in both Latin, in the Latin alphabet, and in
the vernaculars, in runes, that indicate a complementary distribution
of learned Latin and popular runes.
I will present a survey
of the use of runes from their invention until the end of the thirteenth
century by which date it would seem that they were no longer in common
use, except for þ (thorn), which is still in use in Icelandic (although
there are instances of runes being used in parts of Sweden as late as
the last decade of the nineteenth century).
The paper will touch upon the following of the proposed points in the
call for papers:
1. General diachronic and synchronic perspectives
3. Types of written artefact: books, documents, inscriptions
4. Relationship between type of text and type of script
5. Interactions between the written vernacular and written Latin: material
and graphic considerations
My intention is that
the paper may provide the basis for a short survey in a compendium or
short introduction to Western palaeography, a first version of which has
been in use for the last decade in a number of courses in Sweden, at a
number of universities as well as at the royal archives.
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